Sono diventata madre un anno e mezzo fa. La mia nena (bimba in Catalogna, dove vivo) é arrivata un giorno di grandine dopo 18 ore di travaglio.
Finalmente seduta sul letto della stanza dell’ospedale con il mio fagottino nudo sulla pancia, a solo poche ore dal parto mi colpirono due veritá.
La prima: l’aciditá di stomaco dei cinque mesi precedenti era svanita di colpo. La seconda: con l’aciditá era sparita anche la leggerezza che non sai nemmeno di avere quando non sei ancora genitore. In quel momento, guardandolo negli occhi, sibilai incredula al mio compagno un “Madre mia, che sofferenza!”.
ùE non mi riferivo ai postumi del parto vaginale, quanto piuttosto ad un senso di inadeguatezza e al timore che la mia creatura stesse soffrendo per qualcosa e io non me ne stessi rendendo conto: freddo, caldo, fame, paura, smarrimento? Sentirá, vedrá, avremo fatto abbastanza pelle a pelle (con mamma) o pelle a pelo (con papá)? La gioia immensa di quel momento era giá accompagnata da una inquietudine quasi costante.
Allora non sapevo quanta ragione avessi avuto con quella epifania ospedaliera! Questa sofferenza non se ne andó nemmeno nei mesi successivi, quando la fragilitá del bebé cominció a lasciare spazio alla energia, alla ciccia e simpatia della bambina. Semplicemente prese altre forme. Insieme a tutte le difficoltá dell’allattamento al seno, ricordo come fosse ieri e con smarrimento la data del primo raffreddore della nena. Ricordo lo stress per l’introduzione dell’alimentazione complentare che per me, nota capra in cucina peró militante anti-omogeneizzato, fu peggio che prendere una seconda laurea.
Col passare delle settimane poi cominciai ad accettare un amara veritá che normalmente le madri novelle ignorano: esiste una legge tanto oscura quanto inesorabile che io chiamo “la Legge della Madre di Murphy”, ovvero quella regola per cui, se sei madre e qualcosa si puó complicare, si complicherá. Ed infatti la varicella ci sorprese, ai 9 mesi della nena, il 26 di dicembre. In Italia.
Con la pediatra in vacanza ed il papá ripartito per Barcellona la sera prima. Per non finire in terapia con uno bravo questo episodio lo dovetti elaborare con svariate e interminabili sedute di whatsapp nel chat delle amiche mamme del gruppo di supporto all’allattamento.
Quando la bimba compió i 10 mesi arrivó il temuto rientro al lavoro, che mi tolse il sonno per svariate settimane benché lei, quando la mattina la lasciavo alla sua iaia (la nonna catalana), aveva la stessa espressione dei pastorelli di Fatima davanti alla Vergine e nemmeno si girava per salutarmi.
E per concludere, affrontammo anche la fine dell’allattamento al seno, che fu piú o meno come togliere un cosciotto di antilope ad un leone affamato. Fino a qualche settimana fa pensavo di essere stata brava, tutto sommato. Nonostante le tre ore (spezzate) di sonno per notte, un compagno con orari lavorativi discutibili e madre in un paese straniero lontana dalla mia tribú, non me l’ero cavata poi cosí male: la nena era un sole, tranquilla e serena ed io riuscivo perfino a fare sport, la manicure e a ricordarmi di tirare fuori i panni puliti dalla lavatrice.
Quello che non potevo immaginare era che, dopo un anno e mezzo mancasse ancora all’appello una nuova sfida. O meglio, una tortura. LA tortura, oserei dire: l’introduzione all’asilo nido. Ma questa é un’altra storia....
Nicoletta