Non so voi, ma a me non ha neanche mai sfiorato per l’anticamera del cervello di poter morire di parto: in Africa si muore di parto, in Italia no. Quindi le notizie terribili che ci hanno travolto in questi giorni, queste famiglie distrutte, mamme e loro piccoli morti spesso in maniera inspiegabile mi hanno abbastanza travolto. Ma è così pericoloso partorire? Si può parlare di emergenza parto in Italia?
Per toccare questo argomento così delicato e complesso ho intervistato una dottoressa che da dieci anni si occupa a 360° di lutti perinatali ma ancor prima una persona splendida che dedica la sua vita non solo alla ricerca ma a famiglie con il cuore devastato e che stanno attraversando il dolore più grande che un umano possa provare: la perdita del proprio bambino.
Lei è Claudia Ravaldi, medico chirurgo, psichiatra e psicoterapeuta, fondatrice della Onlus Ciao Lapo.
Morire di parto in Italia: quello che c'è da sapere secondo la dott.ssa Claudia Ravaldi di Ciao Lapo
Il primo punto che la dottoressa ha voluto chiarire è che in Italia non esiste assolutamente un’emergenza parto: l’Italia è un paese con mortalità materna davvero bassa. Come spiegato anche dalla dott.ssa Serena Donati, responsabile del sistema italiano di sorveglianza ostetrica dell’Istituto superiore di sanità di Roma. Semplicemente in questi giorni si è verificato un susseguirsi di questi eventi che ha dato grande risonanza al fenomeno.
La dott.ssa Ravaldi però sostiene che, dato che questi eventi sono scongiuratili nel 50% dei casi, sarebbe lecito intervenire in maniera più efficace: già in un articolo pubblicato su “The Lancet nel 2011, nel numero monografico sulla morte endouterina a cui CiaoLapo ha partecipato come rappresentante dell’Italia, sottolineava come fosse espressa richiesta dell’WHO di abbattere del 20% le morti fetali evitabili nei paesi ad alto sviluppo, migliorando il monitoraggio dei fattori di rischio e aumentando la diagnosi precoce.” Anche la dott.ssa Donati spiega che “sappiamo che intervenendo sulle criticità possiamo ridurre la mortalità materna di circa il 50 per cento”.
Come ben spiegato nella lettera scritta dalla dott.ssa Ravaldi al ministro Lorenzin che potete leggere integralmente qui, “un primo problema che emerge in numerosi report e documenti istituzionali è che l’Italia non riesce a contare tutti i casi di morte perinatale e materna. Anche quando è possibile contarli correttamente, spesso le schede dati sono incomplete, compilate in modo arbitrario e erroneo, e mancanti soprattutto degli approfondimenti diagnostici.”
In Italia esiste dal 2010 il sistema italiano di sorveglianza ostretrica Itoss che prevede di raccogliere, registrare e analizzare le mamme morte di parto in Italia: “Il sistema si basa su due approcci: retrospettivo, collegando i registri di mortalità alle schede di dimissione ospedaliera; e prospettico, mediante la segnalazione degli incidenti da parte dei presidi sanitari delle regioni che hanno partecipato al progetto” Fonte: www.internazionale.it/opinione/jacopo-ottaviani/2016/01/04/parto-morti-emergenza.
Il problema però è che solo 8 regioni fanno parte di questo panel. Chiaramente quindi i dati che abbiamo a disposizione sono parziali e non particolarmente attendibili al fine di una ricerca medico-scientifica volta a studiare il fenomeno.
Un secondo punto che la dott.ssa Ravaldi sottolinea è la necessità di creare una cartella elettronica per la madre e il bambino fin dall’inizio della gravidanza: una donna in gravidanza spesso si reca durante i 9 mesi in più strutture e/o operatori che solo se facenti parte della stessa asl di appartenenza hanno accesso alla sua cartella. Un ginecologo o un’ostetrica privata o un medico di base non hanno la possibilità. Inoltre la cartella dovrebbe essere aggiornata secondo i criteri riportati nel documento inviato dalla dott.ssa Ravaldi al Ministro Lorenzin
Infine è fondamentale ricordare che andrebbero sempre rintracciati e valutati con attenzione quei fattori (a volte modificabili, come l’indice di massa corporea, la dieta e lo stile di vita, a volte immodificabili, come età materna, numero di parti pregressi, presenza o assenza di patologie note, diagnosi di infertilità, pregresse perdite perinatali) che si associano ad un aumentato rischio di esiti avversi in gravidanza. La gravidanza è un percorso lungo e articolato, il cui buon esito dipende da molti fattori. La presenza di alcuni fattori di rischio non necessariamente si associa ad esito infausto, ma richiede, di per sè un’attenzione in più al decorso. Se le gravidanze fisiologiche non necessitano di particolari esami diagnostici al di fuori di quelli di routine, e se le gravidanze classificate come “a rischio” hanno un percorso distinto e specifico per patologia (diabete, ipertensione etc), molto si può migliorare nella gestione delle gravidanze in cui, pur in assenza di patologia conclamata, sono presenti alcuni fattori di rischio (sovrappeso o obesità, pregressa morte in utero, poliabortività, età materna, ricorso a tecniche di procreazione mediamente assistita). In questi casi, mantenendo un approccio il più possibile rispettoso della fisiologia, è necessario personalizzare i controlli, con qualche piccolo accorgimento in più.
Quindi, se da un lato dobbiamo evitare gli allarmismi inutili perché il nostro sistema sanitario nazionale e gli operatori del settore sono preparati, competenti e in linea con la media Europea, dall’altro è necessario portare avanti questi 3 progetti: estensione del Sistema Italiano di Sorveglianza Ostetrica a tutte le regioni Italiane, cartella elettronica materno-fetale e particolare attenzione alle gravidanze che presentano fattori di rischio in assenza di patologia conclamata.
Giulia Mandrino
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