Non è un caso se depressione e svogliatezza siano dilaganti negli ultimi anni. Il mondo va velocissimo, i cambiamenti sono enormi, ma soprattutto la vita è sempre più soggettiva ed egoista. Si pensa al proprio orticello, senza curarsi di quello degli altri.
Ma, sapete? Riscoprire il valore dell’altro, del suo sentimento, dell’immedesimarsi con le sue gioie e i suoi dolori è la soluzione migliore. Insomma: l’empatia guarirà il mondo!
E non è una frase senza fondamento: ormai è noto che la Danimarca è (secondo vari studi) “il paese più felice al mondo”. E sapete cosa insegnano fin da bambini, ufficialmente a scuola dedicandoci addirittura un’ora a settimana? Già, proprio l’empatia.
In Danimarca tutti i bambini dedicano un’ora della loro settimana scolastica “alla classe”. Sì, proprio alla classe, intesa come il gruppo di studenti. La Klassen Tid è obbligatoria dai 6 ai 16 anni (per tutta la durata della scuola dell’obbligo, praticamente) e consiste in un momento di condivisione totale tra i bambini.
Ognuno parla dei problemi, propri o della classe, pensa a come risolvere questi problemi, condivide, si confronta, ascolta gli altri. E, alla fine, ciò che emerge è l’assoluto rispetto degli altri e delle loro opinioni, delle loro situazioni e delle loro capacità. Ognuno dà il proprio contributo, cercando di trovare una soluzione, proponendo scenari e analizzando tutti i punti di vista.
Il tutto in un’atmosfera assolutamente familiare, intima, di agio: i bambini (e gli insegnanti; anche loro partecipano beneficiando della Klassen Tid!) mangiano infatti una torta fatta con le loro mani , sedendosi per terra (o comunque in posizioni di relax).
Oltre al rispetto, comunque, l’insegnamento alla base della Klassen Tid sono la resilienza (la capacità di affrontare le situazioni), il problem solving e, soprattutto, l’empatia.
Questo valore, ultimamente snobbato e messo da parte a favore di egoismo e spirito di auto-conservazione, è di fatto alla base della felicità che contraddistingue il popolo danese, riconosciuto, come dicevamo, come il “più felice al mondo”.
Essere empatici significa sapersi immedesimare nell’altro, soffrire con lui e gioire con lui, capendo che ognuno ha veri sentimenti e vere aspirazioni, veri problemi e vere risorse. Insomma, vuol dire sapere che l’altro è una Persona con la P maiuscola. Significa sentirlo.
Ecco, i danesi lo sanno, e sanno anche che l’empatia non è un qualcosa di insito nell’essere umano alla sua nascita. Non è che “o ce l’hai o non ce l’hai”! No: l’empatia la si può imparare, venendo educati pian piano ad essa. Ecco lo scopo della Klassen Tid: educare i piccoli essere umani a diventare adulti empatici.
Adulti empatici che, a quanto pare, sapranno creare una società felice, tranquilla e ben strutturata: in Danimarca il sistema scolastico è ottimo, i redditi pro capite molto più alti rispetto al resto d’Europa, il welfare è davvero ben congegnato (la sanità ha pochissime pecche), e, fondamentalmente, la società è davvero egualitaria.
E allora capiamo che sì, l’empatia può essere (e deve essere) intesa come una vera e propria materia di studio, una skill da esercitare per arrivare ad essere persone davvero, davvero empatiche, sensibili, attente all’altro. In modo da scansare depressione ed egoismo a favore di felicità e cameratismo!
Se tendenzialmente state attenti all’educazione dei vostri figli e ci tenete ad essere sempre aggiornati sui metodi didattici che si possono trovare in giro per il mondo, probabilmente conoscerete già Sir Ken Robinson.
Inglese, i suoi pensieri rivoluzionano un po’ il concetto tradizionale di istruzione. Ma, come per fortuna quasi tutti i suoi colleghi educatori, anche lui è un accanito supporter del tempo passato all’aria aperta. E il suo pensiero ci ha molto affascinato!
Nato nel 1950, Kenneth Robinson è britannico, ma oggi vive negli Stati Uniti d’America. Il suo pensiero didattico, nel corso degli anni, si è concentrato sul ruolo della creatività nell’istruzione (secondo lui la scuola uccide questa creatività) e sui modi per sfuggire alla trappola della didattica tradizionale e per cambiare i paradigmi educativi del mondo occidentale.
Tra questi paradigmi da rovesciare, lo stare seduti in classe tra le mura dell’istituto. Secondo Ken Robinson, infatti, i bambini passano troppo tempo al chiuso, cogliendo troppo poco spesso le opportunità per uscire all’aperto, imparando così direttamente dalla natura e dall’esperienza.
Così, in un breve video per TES (un’istituzione globale che vuole fornire aiuto e strumenti agli insegnanti di tutto il mondo) l’educatore ha stilato la sua lista di cinque motivi per i quali i bambini dovrebbero passare più tempo all’aperto.
Ed ecco questi cinque motivi!
Non bisogna dimenticare, aggiunge, che l’infanzia è il momento migliore per lasciare che i bambini imparino direttamente all’aria aperta, lasciandoli lavorare insieme divertendosi, stimolandoli a fare esperienze concrete.
Tuttavia la scuola prende effettivamente un sacco di questo tempo dell’infanzia: meglio fare un attimo marcia indietro e riprendere in mano la situazione, prevedendo sempre più momenti dedicati proprio all’insegnamento nel verde.
Non solo: oltre a questa illuminante lista di ragioni (da stampare e rileggere all’occorrenza!) Sir Ken Robinson è un sostenitore dell’”Empty Classroom Day”, il Giorno della Classe Vuota.
Di cosa si tratta? E’ un’iniziativa bellissima, alla quale possono partecipare gli istituti di tutto il mondo: semplicemente, ci si impegna a celebrare l’importanza del tempo passato all’aperto lasciando le classi vuote per un giorno (il 18 maggio 2017), facendo lezione in giardino o nei boschi per tutto il giorno e lasciando quindi le classi vuote!
Un modo davvero divertente ed efficace per sensibilizzare insegnanti, bambini e genitori su un tema così importante eppure troppo spesso snobbato.
Se volete dare un’occhiata voi stessi all’iniziativa (magari coinvolgendo per primi l’Italia, che ancora non compare!) sbirciate il sito dell’”Empty Classroom Day” (https://emptyclassroomday.org.uk). E se volete ascoltare Sir Kenneth Robinson potete trovare la sua breve lista dei motivi per i quali passare più tempo all’aria aperta sul canale YouTube di TES.
Perché futurismo? Be’, perché le tavole tattili, quei bellissimi strumenti ludici e didattici costruiti da Bruno Munari per educare i bambini alla multisensorialità, nacquero proprio con Filippo Tommaso Marinetti, il fondatore del futurismo. E sono ancora assolutamente valide!
Potrebbero sembrare vecchie e logore, ma anche se hanno quasi un secolo queste tavole sono perfette per aiutare i nostri bambini a scoprire il mondo, stimolando il tatto, la fantasia, la creatività e la curiosità! Scopriamole insieme.
Il “tattilismo”, parola strana, è esistito davvero. Già: Filippo Tommaso Marinetti, fondatore del futurismo, lo teorizzò nel 1921, con lo scopo di creare armonie tattili per migliorare la comunicazione tra gli esseri umani. Perché? Semplice: perché il tatto è il primo strumento che i bambini hanno per comunicare con il mondo, e educare questo senso significa stimolare la mente e il corpo ad una comunicazione più profonda.
Addirittura, Marinetti scrisse un manifesto del tattilismo, nel quale il tatto viene chiaramente esaltato come senso più completo e nel quale stila una lista di azioni da compiere per educarlo. Come? Nuotando sott’acqua ad occhi chiusi e riconoscendo tattilisticamente ciò che ci circonda; enunciare e riconoscere ogni sera gli oggetti in camera, stando completamente a buio; tenendo le mani inguainate per molti giorni, in modo da sorprendere poi il senso del tatto con sensazioni differenti.
“Il Tattilismo creato da me - si legge nel manifesto - è un'arte nettamente separata dalle arti plastiche. Non ha nulla a che fare, nulla da guadagnare e tutto da perdere con la pittura o la scultura. Bisogna evitare quanto più sia possibile, nelle tavole tattili, la varietà dei colori, che si presta ad impressioni plastiche. I pittori e gli scultori, che tendono naturalmente a subordinare i valori tattili ai valori visuali, potranno difficilmente creare delle tavole tattili significative. Il tattilismo (…) deve aver per scopo le armonie tattili, semplicemente, e collaborare indirettamente a perfezionare le comunicazioni spirituali fra gli esseri umani, attraverso l’epidermide. La distinzione dei cinque sensi è arbitraria e un giorno si potranno certamente scoprire e catalogare numerosi altri sensi. Il Tattilismo favorirà questa scoperta”
Fu così che nacquero le prime opere d’arte tattili, da scoprire proprio con le dita. La più famosa, che potete osservare qui sotto, si intitola “Sudan-Paris”: senza utilizzare i soliti disegni, le tele, i pennelli o lo scalpello per scolpire tradizionali opere d’arte Filippo Tommaso Marinetti decise di raccontare il suo viaggio africano incollando su una tavola ciò che gli ricordava le sensazioni provate, gli oggetti visti, le esperienze vissute. Parte integrante dell’opera diventava quindi il tatto: lo spettatore per capire a fondo “Sudan-Paris” doveva infatti toccare, sfiorare, passare con le dita sopra l’opera, per gustarne appieno il messaggio. Una comunicazione tattile, appunto.
(foto 1 http://www.sitographics.it/futurismo_tatilismo.html)
Bruno Munari, anni dopo, riprese il concetto, inserendo nel suo progetto didattico-artistico per i bambini la polisensorialità e le tavole tattili.
Egli, poliedrico ed eclettico, da sempre esplorava le differenti texture dei materiali, la loro qualità, le loro caratteristiche e differenze, utilizzandone di più svariati per le sue opere d’arte. Ed ecco che allora lo spettatore, in questo caso il bambino, diviene protagonista, toccando e facendo esperienza diretta dell’opera.
“Tutti gli umani, al momento della nascita, sono forniti di un apparato plurisensoriale, per natura”, diceva Bruno Munari. “Col passare degli anni, gran parte di questo apparato viene atrofizzato perché l’individuo, per lo sviluppo della conoscenza, dà la prevalenza alla logica e alla letteratura”. Verissimo, no?
E allora Bruno Munari continua: “Occorre attivare di nuovo questo apparato che ci fa conoscere scale di valori tattili, sonori, termici, materici, di durezza e di morbidezza, di ruvidità e di levigatezza, di impenetrabilità, di equilibrio e di staticità, di leggerezza e di pesantezza, di fragilità e di solidità... tutti valori che, spiegati a parole diventano argomenti complicatissimi e quasi incomprensibili.”
La tavola tattile, in particolare, si compone in maniera semplice: una tavola di legno sulla quale vengono applicati vari materiali, dai tessuti alla pelliccia, dalla carta ai nastri fino alla gommapiuma. Il bambino deve assolutamente toccare, manipolare, sentire i materiali, scoprendo così le differenze al tatto, le diverse consistenze, le differenti maniere in cui gli oggetti si presentano.
Non è difficile riproporre a casa o a scuola queste tavole. Si tratta, essenzialmente, di realizzare lunghe strisce di legno sulle quali incollare i diversi materiali che possono stimolare il tatto. Non serve comprare nulla in particolare: tutto ciò che occorre lo si può trovare tra gli scarti casalinghi.
(foto 2 http://www.lapappadolce.net/il-senso-del-tatto-bruno-munari-maria-montessori-e/)
Nastri, quindi, ma anche bottoni, ritagli di tessuti, gommapiuma, piume, pezzettini di pelliccia, cortecce, carta, cartoni fustellati, lana, spugne, piastrelle, cartoni delle uova, scovolini… L’importante è far sì che scorrendo con le dita i contrasti siano davvero percettibili, contrastanti appunto, in modo da dare al bambino la possibilità di rendersi conto delle differenze di texture, di temperatura, di morbidezza, di ruvidezza…
(foto 3 http://simonabalmelli.blogspot.it/2014/03/tavole-tattili.html)
Anche Maria Montessori, infine, propose le tavole tattili. Come per Munari, anche per la pedagogista italiana la plurisensorialità è fondamentale per aiutare il bambino a scoprire il mondo, accompagnandolo nella conquista dell’indipendenza.
Le tavole tattili montessoriane, tuttavia, si distinguono da quelle munariane fondamentalmente per l’ordine (come sempre elemento basilare nella sua didattica) e per i contrasti insiti in loro: ogni tavoletta è infatti divisa ordinatamente in due o più sezioni. Queste due o più sezioni alla vista del bambino potrebbero sembrare esattamente identiche, o comunque molto simili, ma ognuna di esse rappresenta una sensazione tattile, sempre a contrasto con quella accanto: liscio-ruvido, caldo-freddo, duro-morbido, elastico-rigido…
(foto 4 http://www.mammafelice.it/2008/11/28/le-tavole-tattili-liscioruvido/)
Anche in questo caso le tavolette possono essere ricreate a casa, con materiali d’uso quotidiano o di scarto: prendete delle tavolette in legno (o dei cartoni fustellati abbastanza resistenti), tagliateli in modo da avere tasselli rettangolari, divideteli idealmente a metà (o in più sezioni) e caratterizzate ogni sezione con un materiale dalla sensazione tattile definita, accostandovi direttamente il suo contrario.
Potete, ad esempio, incollare del plexiglas con accanto della carta vetro, della pellicola per alimenti accostandola a del feltro… Insomma, cercate di ricreare i contrari e i contrasti decisi: carta, vetro, piastrelle, metallo, pelliccia, nylon, velluto… E dall’altro lato feltro, tulle, carta crespa, polistirolo, spugna, paglietta, sughero… E un’idea è quella di accostare i materiali secondo gradazione di sensazioni, in modo da portare il bambino dal liscio al ruvido e così via, in maniera più dolce e (se volgiamo) più sottile a livello cognitivo.
Ai bambini non serve molto: spesso ai costosi giocattoli preferiscono le scatole da riciclare, trasformabili in fortini e castelli, e ancora più spesso (provare per credere) hanno più voglia di passare il loro tempo fuori, spensierati, piuttosto di stare seduti davanti alla tivù e ai videogiochi!
Il tempo speso in natura, all’aperto, è importantissimo, e noi di mammapretaporter lo sottolineiamo sempre. Ma oltre a sottolinearlo amiamo darvi tanti spunti per far sì che i bambini sfruttino questi momenti all’aperto, godendoseli fino in fondo, traendone lezioni e imparando a vivere nel verde.
Già, perché nel verde ci sono un sacco di lezioni da cogliere: quale metodo migliore per studiare la natura se non vivendola direttamente e facendone esperienza concreta? E allora la cosa più bella che potete fare per i vostri bambini è fornirgli gli strumenti necessari per osservare a fondo ciò ch'egli sta dinnanzi. Insomma, gli attrezzi del mestiere!
(foto 1)
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(Foto 3)
Un argomento che no è per niente frivolo, una scelta che cambia completamente rispetto a prima della gravidanza! Il reggiseno, che già normalmente è un indumento fondamentale per il nostro benessere e che deve essere scelto con cura, diviene durante l'allattamento ancora più fondamentale. Ma come sceglierlo, vi chiederete.
Innanzitutto non fatevi ingannare: non tutti i reggiseni catalogati come "da allattamento" fanno bene al nostro seno!
Ecco la nostra guida per scegliere il reggiseno perfetto per l'allattamento: i modelli, la comodità e gli accessori del capo intimo più importante per le neomamme
Solitamente questo acquisto lo si fa subito, ancora prima del parto, quando inizia lo shopping dedicato all'arrivo del bambino. E spessissimo tante mamme comprano subito i reggiseni da allattamento tipicamente caratterizzati dalla presenza della finestrella apribile sulle coppe.
Be', meglio ragionarci un attimo, perché non è tutto oro quel che luccica, e troppe volte questi reggipetti sono responsabili dell'ostruzione dei dotti. Già, la finestrella è responsabile di tutto ciò: la stoffa che avvolge il seno della donna lascia segni abbastanza profondi (ma anche lievi) che influenzano il passaggio del latte, spesso non consentendolo e causando così gli ingorghi che non aiutano lo svuotamento del seno durante le poppate.
Detto questo la scelta deve quindi poi ricadere su indumenti intimi che non lasciano questo tipo di solchi (controllate molto bene: i solchi non devono essere neanche lievi, né sopra, né sotto, né lateralmente ai seni).
La comodità la si può trovare nell'utilizzo di reggiseni che si aprono davanti, con il gancetto tra le due coppe; a volte invece basta solo un semplicissimo reggiseno morbido di quelli senza coppe o ferretto, da poter sfilare con facilità.
Chiaramente sempre meglio scegliere materiali naturali, quindi optiamo per reggiseni di cotone.
Il reggiseno serve quindi a sostenere al meglio il seno, senza provocare ostruzioni e facilitando la mamma a spogliarsi nel momento del bisogno. Ci sono poi alcuni accessori che, meno indispensabili, aiutano tuttavia la madre che allatta ad evitare alcuni spiacevoli inconvenienti della pratica.
Le coppette assorbilatte da appoggiare tra il seno e il reggiseno, ad esempio, danno conforto a molte donne per contenere le perdite di liquido che possono macchiare gli abiti. Non serve utilizzarle sempre, ma in effetti quando si esce di casa evitano alcune figure spiacevoli (anche se date da un fatto assolutamente naturale).
L'importante nel caso delle coppette assorbilatte è fare attenzione al materiale. Molte di quelle usa e getta sono composte da plastica e da materiali impermeabili che, ok, non lasciano fuoriuscire nulla, ma allo stesso tempo non lasciano respirare per niente la pelle e addirittura rischiano di recare danno al capezzolo. Avete mai provato quindi a sostituire queste coppette usa e getta con dei semplici panni di cotone da lavare e riutilizzare o delle coppette assorbilatte lavabili?
Per le mamme con alcuni problemi fisici come ad esempio i capezzoli troppo piatti o rientranti esistono poi i paracapezzoli. La loro forma consente, indossandoli, di aumentare le dimensioni del capezzolo nel senso della lunghezza per consentire al bambino di tettare meglio. In ogni caso la scelta dei paracapezzoli, siano essi in silicone o il caucciù, deve passare dal parere del proprio medico di fiducia o dell'ostetrica: un loro sbagliato utilizzo potrebbe fare solo danni, o causare addirittura dolorose ragadi.
I paracapezzoli in commercio tuttavia non servono solo a modificare la forma del seno; esistono anche quelli creati appositamente per proteggere il capezzolo dal tocco con i vestiti per quelle mamme che, soprattutto durante le prime settimane di allattamento, avvertono molto fastidio quando vengono sfiorate in quel punto delicato, mantenendo il distacco e aiutando anche a far respirare la pelle. In questo caso state attente alla pressione che esercitano, perché quando troppa attorno all'areola potrebbe schiacciare i dotti provocando ostruzioni come nel caso dei reggiseni. Non teneteli addosso troppo, e se proprio non ce la fate più concedetevi di girare a seno scoperto almeno in casa.
Quelli ormai più conosciuti e utilizzati sono i paracapezzoli in argento, materiale dalle proprietà antisettiche e cicatrizzanti che aiuta le mamme nella lotta alle ragadi, prevenendole e curandole poi. Le ragadi però devono essere considerate per quello che sono, e cioè un disturbo provocato da un attacco errato del bambino o nel suo posizionamento durante l'allattamento. Valutate quindi prima la poppata, scegliendo poi la migliore misura contro i disturbi! E, come nel caso dei normali copricapezzoli, lasciate comunque il più possibile respirare la pelle.
Mamma Pret a Porter non è una testata medica e le informazioni fornite hanno scopo puramente informativo e sono di natura generale, esse non possono sostituire in alcun modo le prescrizioni di un medico o di un pediatra (ovvero un soggetto abilitato legalmente alla professione), o, nei casi specifici, di altri operatori sanitari (odontoiatri, infermieri, psicologi, farmacisti, fisioterapisti, ecc.) abilitati a norma di legge. Le nozioni sulle posologie, le procedure mediche e le descrizione dei prodotti presenti in questo sito hanno un fine illustrativo e non devono essere considerate come consiglio medico o legale.
Tra i precetti della didattica di Bruno Munari, l’eclettico artista e designer che si dedicò moltissimo all’infanzia, tra i più importanti sta la sensorialità. Munari era consapevole dell’importanza del tatto e degli altri sensi per un bambino, e per questo ideò strumenti e attività pensati proprio per stimolare i più piccoli in senso completo.
Conoscerete sicuramente i suoi libri e i suoi oggetti, o ancora le tavole tattili, ma oggi ve ne presentiamo uno un po’ meno studiato e conosciuto: la vasca tattile!
Bruno Munari lo sapeva: il tatto è il primo strumento di comunicazione del bambino. Attraverso esso impara a conoscere il mondo, a interagire. E tra i sensi è il più coinvolgente e scambievole: il tatto prevede infatti contatto, scambio!
Ecco che allora nacquero le tavole tattili, i libri interattivi e tutti i giocattoli fondati sulla polisensorialità: Munari componeva tutti questi strumenti servendosi dei materiali più disparati, dal tessuto alla gommapiuma, dal metallo al legno, combinandoli in modo da fornire al bambino quante più esperienze tattili differenti.
In questo modo i bambini, come per loro natura, esplorano ed esplorano il mondo che li circonda, facendone una conoscenza profonda che formerà la solida base per gli insegnamenti futuri. Troppo spesso ai bambini vengono infatti dati in mano matite e pennelli troppo presto, in fretta, quando invece loro, ancora stupefatti dal mondo, vorrebbero e dovrebbero studiare ciò che li circonda attraverso ciò che possiedono, e cioè il loro corpo.
Oltre alla scoperta, naturalmente, i piccoli artisti ed esploratori attraverso questi strumenti munariani esercitano la loro fantasia: la creatività è infatti messa in moto ogni volta che la mano, la bocca e gli occhi si posano su un materiale differente.
Chi ha imparato il Metodo Munari l’ha quindi fatto suo, ed è così che sono potute nascere altre esperienze, differenti ma sempre fedeli alla filosofia pedagogica dell’artista. La vasca tattile di cui parliamo, infatti, nasce dalla mente di Beba Restelli, educatrice formatasi secondo il Metodo Bruno Munari che ha portato avanti i precetti del maestro.
Dalla sua mente sono nati strumenti altrettanto meravigliosi. Un esempio su tutti il Bosco Tattile: un ambiente interamente costruito con corde, fili, lana, cordoncini, piume, nastri, palline, legno… I bambini vi possono passeggiare, lasciandosi coinvolgere, toccando e immaginando, esplorando e curiosando.
Ed ecco che arriviamo alla Vasca Tattile: essa racchiude tutti gli elementi degli oggetti tattili e polisensoriali munariani, dalle tavole ai libri illeggibili, ma mira a coinvolgere completamente il corpo dei bambini.
Semplicemente, si tratta di una vasca (o di un contenitore abbastanza largo per un bambino) riempita con tessuti ritagliati, pellicce, panni, gommapiuma e chi più ne ha più ne metta (il riciclo è fondamentale!), nella quale il bambino può immergersi e sentire così i materiali che lo avvolgono, che lo accarezzano, sperimentando il tatto non solo manuale ma del corpo nella sua interezza.
Provate a replicarla a casa, racimolando tutti i materiali di scarto che avete (i tessuti sono perfetti perché morbidi e sicuri), variando le consistenze e sperimentando senza limiti!
http://www.sed.beniculturali.it/index.php?it/183/bruno-munari-la-polisensorialit-e-i-bambini
Se vi state chiedendo se esista un modo davvero efficace e al contempo divertente per lasciare che i bambini si approccino alla musica siete nel posto giusto. Già, perché oggi vogliamo raccontarvi la storia di Perepepè, spettacolo musicale per bambini e ragazzi che utilizza la musica dal vivo e le storie più varie per fare scoprire il pentagramma ai più piccoli!
Perepepè è nato nel 2015 a Pavia, su iniziativa di un gruppo di insegnanti e genitori interessati alla divulgazione della musica alle orecchie più piccole. L’idea nacque dopo una semplice riflessione: in un mondo nel quale gli stimoli più svariati sono ormai all’ordine del giorno, manca davvero un approccio più valido e vero nei confronti della musica più pura, quella dal vivo.
Perché se da un lato è vero che i nostri bambini sono effettivamente in grado di fruire di qualsivoglia musica, quella dal vivo è ormai rara.
Ecco allora che grazie ai piccoli concerti proposti da Perepepè i bambini possono scoprire la bellezza della musica suonata dal vero, quella che oltre alle note musicali può portare nelle menti e nei cuori le storie più disparate e le culture di tutto il mondo. Insomma: la musica dal vivo può essere uno strumento educativo, soprattutto divertente.
Ma quali sono gli argomenti che si possono esplorare con la musica? Tutti. Ma, in primis, la storia e la geografia. La storia viaggiando con le note musicali attraverso le diverse epoche della musica, da quella classica del Settecento a quella operistica fino ad arrivare a quella dei giorni nostri. La geografia indagando le latitudini grazie alle differenti culture musicali del mondo.
In un museo, in una biblioteca, in un’aula scolastica, in cortile, in una piazza, a teatro, in libreria: gli spettacoli proposti da Perepepè durano circa un’ora, si adattano a tutti gli spazi e sono perfetti per i bambini tra i 5 e i 10 anni (ma anche meno, o più).
E anche il catalogo è vastissimo: le proposte vanno da “Mozart e il Flauto Magico (o quasi)” a “La voce femminile e l’Opera”, passando per “La musica del Rinascimento tra castelli e principesse”, “Il blues del Mississippi”, “Il folk USA degli anni Venti e Trenta” e “I Berberi e la musica del deserto”.
Non solo: a breve i bimbi potranno assistere agli spettacoli musicali dal vivo dedicati alla musica brasiliana, a quella indiana, a quella dell’Africa Nera e a quella del gruppo che ha rivoluzionato la storia del pop, i Beatles.
Ma chi è che suona di fronte ai piccoli spettatori? Sono tutti musicisti professionisti specializzati proprio nel genere musicale proposto di volta in volta. Tra gli altri, Silvia Mangiarotti (violino), Alyona Afonchkina (violino), Francesca Scarafile (soprano), Carlo Matti (pianoforte), Veronica Sbergia e Max De Bernardi (Red Wine Serenaders), Toto Pumpo (oud, mandola argentina), il trio rock-blues MRB e l’Ensemble rinascimentale “Concerto dei Pifari”.
E, addirittura, quando possibile la musica etnica è rappresentata proprio da un musicista nativo della terra trattata.
Perepepè è anche su facebook ma se avete bisogno di contattare l’organizzazione per portare la musica dal vivo anche da voi, ecco il contatto giusto: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
E' comparsa sul web e in particolare sui social la campagna del Ministero della Salute finalizzata a sensibilizzare l'opinione pubblica sulla spinosa questione fertilità. Parliamo di fertilità o di raggiungere un numero maggiore di contribuenti quindi clienti paganti di uno Stato che necessita di grandi fondi per sopravvivere avendo, tra l'altro, un numero di parlamentari maggiore degli Stati Uniti d'America e stipendi che percepiscono i magnati dell'industria del petrolio?
Ma torniamo a noi: fertilità. Termine sicuramente più medico che colloquiale, anche delicato perchè molto vicino al termine "infertilità" che affligge sempre più coppie. Le cause dell'infertilità sono tante, alcune ancora sconosciute, altre fortunatamente curabili o comunque affrontabili. Ecco cosa troviamo scritto sul sito dell'Istituto Superiore di Sanità:
"infertilità maschile: 29,3%
infertilità femminile: 37,1%
infertilità maschile e femminile: 17,6%
infertilità idiopatica: 15,1%
fattore genetico: 0,9%
Inoltre, la letteratura medica sottolinea sempre di più il ruolo di fattori psico-sociali di infertilità dovuti a fenomeni complessi come lo stile di vita, la ricerca del primo figlio in età tardiva (come dicevamo è fondamentale l’età della donna), l’uso di droghe, l’abuso di alcool, il fumo, le condizioni lavorative, l’inquinamento."
Il problema principale sembra essere che le donne italiane fanno figli tardi: "le donne italiane fanno figli tardi più tardi di quasi tutte le altre donne europee. Si sposano in media a 28 anni, partoriscono il primo figlio a 30 (un anno in più rispetto alla media europea), e hanno meno figli delle altre europee (1.22 contro 1.44). Le ragioni che spingono le donne, o meglio le coppie, a rimandare la genitorialità, sono del tutto comprensibili. Prima occorre raggiungere una ragionevole sicurezza economica, una sufficiente organizzazione familiare per la gestione dei figli, la maturità emotiva che fa della procreazione una scelta autonoma e non un obbligo sociale". Perfetto. Siamo d'accrodo: non siamo un utero finalizzato alla riproduzione siamo donne, che vogliono mettere al mondo esseri umani inseriti in un contesto famigliare più o meno equilibrato, con valori e un briciolo di sicurezza economica. Perchè se trent'anni fa avevamo i nonni, gli zii e il lavoro fisso generalmente sotto casa, ora non abbiamo lavoro fisso, abbiamo i nonni che lavorano perchè si va in pensione a 70 anni o che abitano lontano perchè troviamo lavoro difficilmente vicino a casa, e spesso dobbiamo impiegare un'ora per raggiungere il nostro ufficio. Talvolta si incontra l'amore non a 25 anni ma a 35 o a 40. Talvolta non ci sentiamo pronte ad avere un figlio a 28 anni perchè siamo appena arrivate nel mondo del lavoro, abbiamo studiato tanto, abbiamo fatto tanti sacrifici che rinunciarci proprio ci sembra di aver buttato via 30 anni della nostra vita: perchè si, in Italia per fare carriera devi delegare ad altri la crescita dei tuoi figli.
Perchè si, caro ministro Lorenzin, qui il problema non è solo il fatto che questa campagna sia offensiva nei confronti della donna che non è una giumenta (ci abbiamo messo secoli per capirlo), non è solo offensiva nei confronti di coloro (e sono tantissimi) che non possono avere figli, non è solo offensivo per coloro che non si possono permettere una FIVET che in Italia ha costi improponibili, non è solo offensivo per coloro che devono recarsi all'estero per riuscire ad avere una gravidanza, non è solo di cattivo gusto perchè, non so se i vostri esperti di comunicazione lo sanno, ma alla prima lezione di comunicazione integrata all'università insegnano che la comunicazione efficace veicola sempre e solo concetti e mood positivi, mai si utilizza il negativo come avete fatto voi. Non è solo povera e banale perchè non ci vuole la top agenzia europea per dirvi che si poteva effettuare una campagna di sensibilizzazione in mille e meravigliosi modi differenti, più creativi, più delicati e sopratutto più efficaci.
Ma sopra ogni cosa, fa davvero incazzare noi mamme che viviamo una vita infernale per riuscire a conciliare famiglia e lavoro:
- il part time è un miraggio di poche elette
- gli asili nido costano una fucilata e quando i bambini si ammalano che si fa?
- viviamo nel costante senso di colpa perchè siamo sempre alla ricerca di luoghi dove "piazzare i bambini"
- le scuole finiscono e metà giugno e iniziano a metà settembre. Ho portato mio figlio in oratorio questa estate per risparmiare: alle due di pomeriggio era a giocare sul cemento con 36 gradi, senza adulti che lo sorvegliassero se non un gruppo di adolescenti di 15 anni che faceva volontariato. Va bene tutto, ma a voi sembra normale? Lo sa che un centro estivo dove non succede ciò costa circa 100 euro a settimana? Lo sa che una famiglia con due figli dovrebbe spendere solo per il mese di luglio 800 euro per dei centri estivi decenti?
- non parliamo della quantità di tasse pagate da noi libere professioniste che non possiamo permetterci di avere una partita iva dopo i 35 anni perchè siamo letteralmente rapinate dallo Stato Italiano
- i mutui, non so se glie l'hanno detto, non vengono elergiti se non a pochi. Figuriamoci a lavoratori precari come lo siamo tutti noi.
- lo sapete vero che l'Italia è uno dei paesi Europei dove il carico di lavoro della casa e dei figli è quasi tutto sulle spalle delle donne?
- siete vagamente coscenti del fatto che per adottare un bambino in Italia siano necessari 10.000 euro almeno perchè bisogna recarsi all'estero?
e la lista continua...
Allora, prima di iniziare una campagna di sensibilizzazione sulle capacità del mio utero, fate una campagna per sensibilizzare l'universo maschile a pulire il water e lavare i piatti. Realizzate leggi che sostengano il lavoro delle madri, flessibilità di orari. Partite iva con regimi per le mamme così che sia possibile lavorare e prendersi cura dei bambini. Asili nido pubblici con costi decenti.
E sopratutto domani mettetevi davanti allo specchio, togliete il vostro Rolex, spettinate la vostra piega appena fatta e il rossetto di Chanel e chiedete in tutta onestà a voi stesse se mettereste al mondo un figlio con un lavoro precario (anche per il vostro partner), una casa d'affitto, senza nonni, con i costi di asili nido pazzeschi. Ve lo dico io, aspettereste, aspettereste perchè quella che dovrebbe essere una gioia diventa un'ansia, una paura, uno sconforto per la consapevolezza che viviamo in un paese dove essere mamme è davvero impossibile. E lo è ancora di più per donne come me con una laurea, un master e tanti sogni che sono nel cassetto perchè a mala pena arriviamo a fine mese, e con grandi sensi di colpa per non avere abbastanza tempo per goderci i nostri figli. Ma cosa importa, loro saranno contribuenti, questo è l'essenziale per voi. Oltre al danno, la beffa.
La prossima estate fate un giretto in Francia e in Svezia. Offrite ciò che offrono loro. Poi ne riparliamo.
Se fino a qualche anno fa l'allattamento era quasi tabù e si preferiva spesso il latte in polvere piuttosto del "disagio" di attaccare al seno il proprio bambino in pubblico, oggi i benefici sono conosciuti e rispettati, e l'allattamento è giustamente incoraggiato. Gli operatori del settore, le strutture mediche e la maggior parte dei media ne parlano con atteggiamento positivo, e noi ne siamo davvero contente.
Tuttavia le domande attorno a questo naturale eppure delicato argomento sono infinite. Ora le ostetriche specializzate nell'allattamento sono sempre più, e la loro disponibilità a rispondere a tutte le questioni delle mamme è da sfruttare fino in fondo: non dimentichiamoci che allattare al seno è in ogni caso una pratica sicuramente naturale per la quale siamo fisiologicamente predisposte ma allo stesso tempo delicata e spesso stancante (fisicamente e psicologicamente) per le donne, e come tale dev'essere vissuta al meglio.
Una di queste domande riguarda certamente la durata dell'allattamento. Non nel senso di quanto debba durare una poppata, o quanto frequentemente il bambino debba essere attaccato; piuttosto fino a quanti mesi o anni di vita il bebè possa attaccarsi al seno.
Proprio così: non c'è una regola standard. Se l'inizio dell'allattamento è chiaramente fisso, e cioè subito dopo la nascita del bebè, la sua fine non è stabilita. E fin dall'inizio è una scelta della mamma (o comunque dei genitori): allattare al seno sì, allattare al seno no.
Esattamente come questa scelta pro o contro l'allattamento, è sempre la madre a decidere fino a quando proseguire con la pratica delle poppate al seno. Ma esiste un tempo giusto e ragionevole? Meglio per poco tempo oppure meglio proseguire ad oltranza?
Innanzitutto, i primi sei mesi di vita del bambino, come ricorda l'Organizzazione Mondiale della Sanità, devono prevedere naturalmente l’allattamento esclusivo: in questo primo periodo, infatti, l'apparato digerente del neonato non è ancora sviluppato per digerire altri alimenti diversi dal latte materno e i benefici per entrambi sono infiniti e scientificamente provati.
Dopo i sei mesi di vita si prosegue quindi con lo svezzamento, introducendo gradualmente cibi solidi e vari nella dieta del bambino. Tuttavia questo non prescinde dall'importanza del latte come alimento ancora fondamentale per la sua dieta: poppare al seno significa per il bambino continuare ad assicurarsi una fonte nutrizionale molto, molto valida e importante.
Lo dimostra anche il fatto che alcune ricerche scientifiche sono arrivate alla conclusione che il cucciolo di Homo Sapiens sia a tutti gli effetti un lattante, nel senso più profondo della parola. Noi la associamo all'"essere piccolo", ma essere "lattante" vuol dire semplicemente essere un essere vivente che necessita - per il buon funzionamento organico - del latte (o di un altro alimento equivalente nella forma, nell'aspetto, nel contenuto e nella composizione). Non solo: i piccoli essere umani sono lattanti fino ai cinque, sette anni!
Ecco perché la scelta migliore alla fine risulta essere l'allattamento fino e oltre ai due anni di età del bambino.
Si tratta chiaramente di una scelta consapevole e mai imposta, un qualcosa che la mamma deve sentire di volere davvero, senza che questo provochi in lei disagio. La scelta migliore quindi non deve venire dall'esterno, ma dall'interno della famiglia.
Mamma, papà e bambino stanno bene quando fanno scelte per loro felici. Lo stesso deve avvenire con la decisione di interrompere o prolungare l'allattamento: sarà la mamma con le sue sensazioni, oppure sarà il bambino che deciderà da solo e gradualmente quando staccarsi. Prima o poi accadrà; semplicemente non fatene una questione troppo spinosa. E' una pratica naturale, che deve far stare bene tutti; meglio viverla per quello che è, quindi, senza pressioni o disagio!
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Si, lo ammetto…adoro scagliare bombe di acqua gelida…e oggi ho deciso di imbarcarmi in un argomento deeeelicatissimo. Conoscete il proverbio “ogni scarrafone….”…sono certa di si. È un detto vecchio come il cucco, che sottende ad una tesi semplice e lineare: ogni bimbo, per la propria mamma, è bellissimo, meraviglioso, intelligente, simpatico, un adone degno di coroncina. Per la propria mamma…ma per gli altri? Partiamo dai neonati. Tu partorisci, e ovviamente in clinica si riversa tutta la settima generazione da entrambi i rami…tutti attorno alla culletta del poppante, o col naso incollato al vetro della nursery…tutti a sbirciare per ammirare finalmente l’ultimo nato…e…..taaaadah! Ecchetelo! La mamma sposta il lenzuolino con ricamati ornitorinchi blu, o l’infermiera lo acchiappa come ‘na pagnotta da mezzo chilo, e via! Si accendano i riflettori e l’occhio di bue…un coro di “oooooooooooooooohhhhhhhhhhhhhhhhhhh, ma quanto è belllllllooooooooooooo!!!!!!!!!!!”.
Ora…il neonato per definizione è tenero, morbido, ‘na palletta de ciccia, una miniatura perfetta, l’amore della nostra vita…ma siate sincere sincere sincere…è bello??? Lì per lì, noi mamme lo prendiamo in braccio, lo guardiamo negli occhi, e pensiamo “è perfetto, vedrai che lo prenderanno per il prossimo spot pampers”. A due ore di vita, lo immaginiamo già sulle passerelle di Pitti Bimbo, che sfila mentre tutti gorgogliano di ammirazione. Poi a un mese dal parto, in un momento di lucidità, scorriamo le foto sul telefono e…. “Amò, ma che ha partorito quell’amica tua cessa? Quella brutta brutta del liceo?”… “No amò, partorisce il mese prossimo, perché? “No perché ce sta ‘na foto de una co ‘n regazzino in braccio che nun se sa se è più brutta lei o il fijo…. “Amò…quella sei te co Lollo…la mattina che è nato…”
Trauma!!! Nella foto sei tu! E quella specie di tartaruga tutta rossa e grinzosa che hai in braccio non è un elfo, è tuo figlio! “Ma davero!!!! Madòòòòòòò! Ma così brutto era quando è nato!!!???”
La risposta è si! Era brutto, era inguardabile, ma ai nostri occhi, con tutti quegli ormoni in circolo, e dopo quella fatica immane, non poteva che apparire meeeeraviglioso! D’altro canto, invito ciascuno di voi a passare dentro un pertugio delle dimensioni, che so…di uno di quei tubi arancioni di plastica che si vedono nei cantieri edili, e a venirne fuori bello come il sole invece che tutto sudato, stropicciato e ammaccato. Ma appena partorisci, nessuno ha il coraggio di dirti che quel nanetto piccino picciò è tutto tranne che bello! Anzi…la nonna paterna esordisce con “madòòò pare tutto er principino George!”…dopo essere finito dentro un’impastatrice forse…e tutti, sulla scia della nonna, iniziano a cercare somiglianze (anche con l’idraulico ovviamente, per creare il momento simpatia, perché c’è sempre il coglione che deve mettere in dubbio la paternità suscitando grasse risate). “Guarda guarda, gli occhi come quelli de nonna Adele!”…che non si sa come fanno a vedere il colore visto che il neonato ha due specie di gelatine al posto dell’iride, tipo gli orsetti gommosi quando ne metti in bocca tre assieme, colore indefinibile. “Naaa….il sorriso de zio Peppino!”….ovvio…a 30 minuti dalla nascita, il neonato medio sorride già, di gusto e intenzionalmente. “Ma guarda come sta su, tiene la testa bella dritta, pare nonno Adelmo!”…tutti si guardano, e annuiscono in silenzio, perché nonno Adelmo era brutto come la fame, pareva un quadro de Picasso, ma nessuno ha il coraggio di dirlo a voce alta. E vabbè, insomma, la stanza della clinica è un echeggiare di frasi di ammirazione verso il nuovo membro della famiglia, e mamma e papà gongolano orgogliosi ammirando il loro piccolo capolavoro. Poi l’orario delle visite finisce, e tutti vanno via. Si allontanano dalla stanza lasciando finalmente soli i neo genitori…e il cugino, quello adolescente e cafone, è di solito il primo a parlare: “Mortacci sua quant’è brutto sto regazzino…speriamo che col tempo s’aggiusta!”. Segue coro di insulti, e tutti al bar a bere!
Ogni scarrafone è bello a mamma sua! Ma non solo bello…si sa…per noi mamme i nostri figli sono anche intelligenti, educati, gentili, il top del top. E soprattutto simpatici. E invece, mo me ne direte di tutti i colori già lo so, ma ce stanno certi ragazzini che porca miseria so simpatici come le spine sugli alluci in spiaggia. Chi di voi non ha mai incontrato al parco “la bambina gne gne”?....Dai su, la bambina quella che c’ha la madre spocchiosa e altezzosa, tutta “ce l’ho solo io”…come può essere la figlia di una così? Ve lo dico io com’è…’na rompicojoni! E voi direte “ma no, non è possibile, ma è un bimbo, i bimbi sono tutti tenerosi e morbidosi e dolci e amorevoli!”…mentite sapendo di mentire!! Ci sono bambini che fanno venire voglia di andare a picchiare i genitori…e la bambina gne gne è una di queste. È quella bimba con la vocina melensa e lagnosa, quella che dice le cose piagnucolando, oppure che le dice facendo la vocina da sotuttoio “perché tu non puoi giocare coi miei giochi, perché la mia mamma ha detto che sono di legno buono fatti in un paese lontano e che non devo farli toccare a nessuno…e tanto noi a Natale andiamo a sciare perché mio nonno c’ha la baita in montagna e mia mamma ha detto che noi possiamo perché siamo ricchi perché papà tanto adesso lavora in un posto che gli danno tanti soldi…e gne gne gne!”. Dai, una bambina così è simpatica? Una volta mia figlia è stata presa di mira da una così…e dopo aver subito per una decina di minuti sapete come l’ha zittita? Sapete cosa le ha detto? Giuro, ha risposto così “mia madre ha un fratellino in pancia e la tua no”. Ha alzato i tacchi e l’ha mollata sotto al sole. Che dire…mia figlia si che è simpatica…come vi dicevo…ogni scarrafone è bello a mamma sua! ;-)
Cinzia Derosas