La pila di piatti da lavare, i giocattoli sparsi sul tappeto (e sul pavimento, e cacciati alla rinfusa nei cassetti, e nella vasca da bagno), il muro che da quel giorno in cui tua figlia ha deciso di essere un’artista graffittara non viene più pulito.
E allora? Vi immaginate come sarebbe avere una casa super pulita, sempre in ordine, senza anima? Sì, avevamo parlato della necessità di essere minimal. Ma l’essere minimal serve solo ad essere più tranquilli, ad avere un pochino più sotto controllo le cose, e soprattutto a risparmiare tempo quando l’ordine, in effetti, serve (avete ospiti? Si pulisce in un istante!). Anche in una casa minimal abitata da bambini c’è sempre qualcosa in disordine. Quel giocattolo fuori posto, la coperta che passa di stanza in stanza...
Bene così! Meno disordine, quindi (che fa bene alla mente!). Ma non sbarazziamoci del tutto del “vissuto”! Insomma. Non puntiamo alla casa immacolata.
Pensateci un attimo: provate a immaginarvi di tornare a casa. Nessun giocattolo in vista. Il bagno più che pulito, senza nemmeno una macchia e nemmeno una crema per il culetto sul ripiano. Il lavandino in cucina? Sgombro e perfettamente pulito (che poi più pulito non significa necessariamente più sano.... Nessuna fotografia alla rinfusa sui ripiani, nessuna personalizzazione. Ma chi ci vive in questa casa?
Avere una casa immacolata (che non significa minimal) non è da tutti. Forse c’è chi è in grado di tenerla così ogni giorno. Ma probabilmente questo qualcuno ha un aiutino esterno, oppure molto tempo a disposizione. Forse non ha figli, e forse non si cura di personalizzare la sua casa. L’importante è che sia pulita.
Se hai figli, se lavori, se hai un marito che pranza e cena a casa, se hai spesso ospiti... Tutto questo è impossibile. Non c’è il tempo materiale per fare tutto, e nessuno ne fa una colpa. Sgomberare i mobili inutili e i suppellettili che ingombrano solo è doveroso, per la nostra salute mentale (solo in questo modo faremo tutto più velocemente!). Ma è anche doveroso accettare il disordine, quando questo è quotidiano. Ed è doveroso capire che ogni casa ha il suo vissuto, la sua famiglia che la vive, la sua vita.
Bene. Accettare non significa lasciare cadere a scatafascio il proprio appartamento o la propria casa. Ma a volte avere cura significa anche rendere personale e familiare l’ambiente in cui si vive. Lasciando, soprattutto, che i bambini lo vivano davvero fino in fondo.
Bambini che vivono in fondo la casa: significa che, sì, ci saranno le Lego in terra e che le pesterete lanciando urla disperate, che ogni tanto i colori finiranno sul pavimento o sulle pareti, che spesso la lavastoviglie sarà piena e che il lavandino strariperà, che dopo il bagnetto il bagno sarà un lago. Ma perché prendersela? Perché non pensare che invece tutto questo è una fortuna?
Prendetevi cura della vostra casa. Pulitela. Arredatela e decoratela secondo il vostro gusto. Liberatevi dall’eccesso, che spesso contribuisce solo a mettere disordine in testa. Ma poi lasciate che venga vissuta. Che venga personalizzata con le azioni quotidiane. Che diventi una casa che è davvero una casa, e non solo un punto d’appoggio o un luogo immacolato da sfoggiare con gli amici.
Siate insomma grati del disordine e del “non immacolato”. Arrabbiatevi solo per un attimo quando i bimbi combinano un disastro. Ma poi sorridete. E abbracciateli, pensando che la vostra vita è davvero più piena grazie a loro. Sì, più disordinata. Ma certamente più piena!
Da qualche anno a questa parte le diagnosi di dislessia alle scuole elementari sono all’ordine del giorno. Non è che i casi sono aumentati; semplicemente, quando eravamo noi piccoli non c’erano gli strumenti adatti e le conoscenze approfondite per diagnosticare questo disturbo (che fortunatamente oggi viene riconosciuto molto presto, in modo da adottare metodi differenti e studiati ad hoc per ogni bambino).
Allo stesso modo, sono aumentati moltissimo i casi di disturbi psicologici e psichici nei ragazzi più grandicelli. Gli adolescenti. I teenager, insomma. Stavolta però il ragionamento non regge. Già, perché non si tratta semplicemente di un miglioramento degli strumenti, che avrebbero aiutato a diagnosticare meglio le patologie. No, in questo caso specifico i casi sono aumentati realmente. Depressione, ansia, stress, infelicità generale... Purtroppo il problema ha la sua radice proprio nei giorni nostri, nella loro natura più profonda. E per questo sarebbe bene capire meglio di cosa si tratta.
Per dirla in poche parole, negli ultimi vent’anni l’infanzia è cambiata drasticamente. O meglio: è cambiato il modo in cui la si vive. Il modo in cui gli adulti la fanno vivere ai bambini. Se quindi prima la si viveva in maniera più naturale (giocando liberamente), oggi i tempi sono dettati dai genitori e dagli adulti, che li organizzano con scuola, attività e sport senza lasciare spazio alle attività più spontanee, quelle senza un obiettivo definito, come il girare in bici per il quartiere le sere d’estate, giocare con la palla in un prato (non per l’allenamento di calcio!), inventare scenette con gli amichetti... Sì, è vero, queste attività non sono state del tutto cancellate e i nostri bambini sanno ancora giocare. Ma siamo sicuri che lo facciano abbastanza?
Stiamo parlando quindi della prima infanzia, e dell’essere bambini. Ma cosa c’entra con gli adolescenti? C’entra. Perché è proprio attraverso l’abitudine a questo gioco libero e alla non totale supervisione (alla quale oggi ormai i bambini sono abituati) che i bimbi sviluppano le loro capacità organizzative, imparano a risolvere i problemi, a inventare, a socializzare e a immedesimarsi nell’altro. Imparano l’indipendenza, soprattutto. E l’indipendenza porta all’autostima.
Se questi due pilastri, indipendenza e autostima, non sono stati sufficientemente allenati, quindi, si rischiano problemi durante la crescita, quando ormai le fondamenta sono formate.
Pensateci, è semplicissimo: se una persona si abitua ad avere qualcuno che costruisce passo passo la sua vita, quotidianamente, di ora in ora, come potrà sviluppare la capacità di costruirsi lui stesso la sua vita? Come potrà venirgli in mente di prendere in mano le situazioni? Come potrà sentire che le sue decisioni sono importanti e valide?
Sommato a tutto ciò c’è poi un altro fatto più che determinante nel problema dell’ansia e della depressione degli adolescenti. Dopo aver passato un’infanzia come quella sopra descritta (che per noi è ormai normale) si ritrovano in scuole spesso pesanti, nelle quali il voto è ciò che conta, nelle quali la competizione è il pane quotidiano e nelle quali spesso se non raggiungi un obiettivo sei portato a sentirti mortificato e non all’altezza.
Fortunatamente ci sono oggi differenti tipologie di scolarizzazione, a partire da quella in casa per arrivare alla scuola senza zaino e a quella senza voti, o addirittura a quella nel bosco. Non diciamo che tutte le scuole debbano distinguersi in questo senso, diventando tutte indistintamente alternative. Tuttavia, se queste tendenze stanno prendendo piede è perché sono effettivamente valide, perché seguono principi condivisibili e perché credono nella ricerca di un differente modello di istruzione che ponga di nuovo al centro il bambino.
Mettere quindi al centro il bambino sarà la soluzione per arginare e prevenire ciò di cui parliamo, e cioè i problemi psicologici, relazionali e psichici degli adolescenti. Che se si ribellano fanno bene! Significa che stanno cercando la loro dimensione, il loro essere, tentando di spezzare le catene che li tengono legati alla mano degli adulti, sempre lì pronti ad accompagnarli in tutto ciò che fanno.
Evitare la ribellione (che è inevitabile, mettiamocelo in testa con un sorriso!) non è possibile, ma arginare i problemi e soprattutto fare stare meglio i nostri ragazzi è possibile: lasciamoli liberi. Sin da piccoli. Sproniamoli a giocare liberamente, a inventare, a fare. Ma poi allontaniamoci, fidiamoci di loro, togliamo la supervisione e lasciamogli sperimentare libertà e indipendenza.
La pasta alla norma è un must della cucina italiana: pasta, melanzane fritte, pomodoro, ricotta salata e basilico. Sì, pesantuccia, ma deliziosa! A noi piace realizzare questa ricetta anche sottoforma di lasagne, e vi assicuriamo che il risultato è un piatto squisito a cui non resisterà nessuno!
Quando vogliamo mettere in tavola un contorno leggero ma saporito, noi di mammapretaporter optiamo sempre per le verdure al forno: molto più leggere di quelle fritte o saltate in padella, mantengono un sapore inconfondibile e basta un po' di grill per renderne la superficie croccante. Broccoli, cavolfiori, patate, zucca, zucchine... Ma avete mai provato con le carote? Il loro sapore, che piace già moltissimo ai bambini, si accompagna bene praticamente con qualunque altro cibo. Ecco la nostra ricetta veloce, semplice e d'effetto!
La colazione è il pasto più importante della giornata. Luogo comune che stavolta è una grande verità. Essendo così fondamentale, è bene che questo pasto sia completo, nutriente, energizzante e sano. Insomma, naturale al 100%. A noi piace molto variare, variando smoothie bowl con muffin o torte fatte in casa, biscotti o crepes. Ma avete mai provato il porridge d'avena? Un'altra idea gustosissima e davvero sana i cui ingredienti possono variare a seconda delle preferenze e dei frutti di stagione.
A partire dalle prime ore di vita e per quasi tutta l’infanzia, il bambino è soggetto a controlli medici specifici, il cui scopo è valutarne la salute psicofisica e motoria in modo da monitorare con precisione il suo stato di salute. Ma quali sono, nello specifico, questi controlli? E qual è la loro importanza?
Esatto, si parte con l’indice di Apgar, eseguito A POCHI SECONDI DALLA NASCITA da parte del medico per valutare la vitalità del neonato, subito dopo avergli liberato le vie respiratorie e avergli applicato il collirio antibiotico (in modo da prevenire congiuntiviti batteriche, molto frequenti). Si valutano in particolare cinque aspetti, a ognuno del quale vengono assegnati dei punti: la frequenza cardiaca (0 se assente, 1 se minore di 100 battiti al minuto, 2 se superiore); la respirazione (0 se assente, 1 se debole, 2 se vigorosa con pianto); il tono muscolare (0 per atonia, 1 per flessione accentuata e 2 per moto attivo); i riflessi (0 se assenti, 1 se scarsi e 2 se vivaci); e infine il colore della pelle (0 punti se il bimbo è cianotico, 1 se ha le estremità cianotiche e 2 se è tutto regolare).
Dopodiché si passa alle visite più specifiche. Innanzitutto, la più “basic” è la misurazione del bambino: il peso medio è di circa 3.3 kg, e la lunghezza si aggira di solito intorno ai 45 e 55 cm. Anche la circonferenza della testa ha la sua misurazione: la norma sta tra i 32 e i 37 cm.
Il GIORNO DOPO LA NASCITA il medico procederà quindi con la valutazione del capo (osservando che sia tutto regolare), del torace (auscultando cuore e polmoni), dei genitali (per i maschietti particolare cura verrà data all’osservazione dei testicoli, che dovranno scendere, mentre le femmine dovranno avere le labbra separate) e degli arti superiori e inferiori, guardando tono e riflessi e utilizzando la manovra di Ortolani per escludere displasie (e cioè un difetto del punto di intersezione tra la testa del femore e il bacino). Se questo test mostrasse difetti delle anche, o se il medico notasse (anche dopo i primi giorni) dei difetti di postura, entro il terzo mese il bambino avrebbe bisogno di una ecografia delle anche: anche qui per escludere difetti maggiori o per intervenire subito, prendendo qualche provvedimento per aiutare il corpo del bambino a riallinearsi.
Successivamente è il momento di valutare i riflessi del neonato, partendo da quello di Moro (e cioè un movimento delle braccia come per afferrare qualcosa nel momento in cui il bambino, da supino, viene leggermente sollevato e lasciato cadere) e passando a quelli di suzione (per monitorare se, toccando le labbra, il bimbo ha riflesso del “succhiare”), di marcia (tenendo il bimbo sollevato per le ascelle su un piano, per capire se accenna qualche passo) e di prensione (esattamente quel movimento così tenero di quando il piccolo, avvicinando un dito al palmo della mano o del piede, stringe le dita; per ora è un riflesso involontario, che verrà sostituito da una presa consapevole attorno ai 4 mesi).
Ed ora cominciano le visite e le iniezioni più “invasive”, ma comunque sicurissime e atte a scongiurare problemi gravi. La prima? L’iniezione, via bocca o per via intramuscolare, della vitamina K, la cui funzione è prevenire problemi della coagulazione del sangue. La seconda è invece un prelievo di sangue (dal tallone) in funzione di screening per osservare se il bambino è affetto da particolari patologie: l’ipotiroidismo, la fibrosi cistica, la fenilchetonuria (la mancanza di un enzima che provoca difetti irreversibili al sistema nervoso) e la galattosemia (altra carenza di un particolare enzima che non permette di utilizzare lo zucchero del latte, il galattosio).
Durante i PRIMI TRE MESI si avranno poi le consuete visite dal pediatra, una per mese. Tutte sono volte a mantenere l’osservazione della salute per valutare il benessere. Il pediatra monitorerà quindi la crescita, i riflessi, il tono muscolare, il cuore, i polmoni... Insomma, ripeterà tutti quegli esami eseguiti alla nascita.
Il terzo mese è però caratterizzato anche dalla prima dose di vaccinazioni obbligatorie: l’antipoliomelite, antidifterica, antitetanica, antiepatite B (questa viene però in taluni casi eseguita subito dopo la nascita, nel caso di una mamma portatrice), antipertosse e antihaemophilus influenzae B.
QUARTO E QUINTO MESE: di nuovo le solite visite mensili dal pediatra, e durante il quinto mese ecco la seconda dose di vaccini, che saranno gli stessi della prima volta, in modo da richiamarli.
Durante il SESTO MESE ci saranno invece la prima visita oculistica e il vaccino antinfluenzale. La prima si esegue in questo periodo poiché è proprio il momento in cui il cervello del bambino inizia a fondere le immagini che arrivano agli occhi. Se già prima il medico avesse osservato problemi o malformazioni, le visite in questo caso sarebbero più specifiche, ma per casi nella norma l’oculista procederà con l’osservazione degli occhi, delle palpebre e dei loro movimenti e della capacità oculare attraverso esami specifici per i bambini.
Per quanto riguarda invece il vaccino antinfluenzale, ovviamente questo cambia di anno in anno secondo le direttive dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che riconosce i ceppi presenti in quel periodo e che li inietta nel bambino per far sì che sviluppi gli anticorpi, in modo da prevenire i principali malanni di stagione. E naturalmente il vaccino sarà diverso da quello iniettato negli adulti: questo sarà più blando e studiato per ridurre al minimo gli effetti collaterali (come l’innalzamento della temperatura corporea).
La visita dal pediatra del SETTIMO MESE sarà più specifica delle altre, poiché è in questo periodo che viene nuovamente misurata la crescita del bimbo (attraverso peso e altezza), che dovrà risultare, se sano, nel percentuale tipico del settimo mese.
Dopo gli occhi al sesto mese, al settimo è la volta delle orecchie: sarà il momento, infatti, del controllo dell’udito. Questo mese è il più indicato poiché è adesso che il bambino inizia ad interagire di più, esprimendosi a grandi linee. Seguire una fonte sonora, sorridere ad un suono, imitare con la voce una parola o un suono appena udito... Tutti questi semplici gesti, misurati, saranno l’indice del corretto funzionamento del suo udito. Per capirlo meglio, poi, si procede con il Boel Test, e cioè un test durante il quale il pediatra, in una stanza tranquilla e priva di stimoli, cattura l’attenzione del bimbo con un bastoncino, e quando è sufficientemente distratto gli agita dietro alle orecchie una campanellina, in modo da capire se il bambino la sente e reagisce.
Tra L’OTTAVO E IL DODICESIMO MESE si procederà con le normali viste dal pediatra per monitorare la salute del bimbo. Il decimo, tuttavia, sarà il mese del terzo richiamo delle vaccinazioni (di nuovo identiche alle precedenti) e della seconda visita oculistica (durante la quale il medico controllerà la presenza di malattie come lo strabismo, il glaucoma o vizi di rifrazione, la funzionalità delle pupille e dei condotti lacrimali, l’allineamento degli occhi e la sincronia dei loro movimenti, oltre che eseguire l’esame del fondo oculare per trovare difetti visivi).
Mamma Pret a Porter non è una testata medica e le informazioni fornite hanno scopo puramente informativo e sono di natura generale, esse non possono sostituire in alcun modo le prescrizioni di un medico o di un pediatra (ovvero un soggetto abilitato legalmente alla professione), o, nei casi specifici, di altri operatori sanitari (odontoiatri, infermieri, psicologi, farmacisti, fisioterapisti, ecc.) abilitati a norma di legge. Le nozioni sulle posologie, le procedure mediche e le descrizione dei prodotti presenti in questo sito hanno un fine illustrativo e non devono essere considerate come consiglio medico o legale.
Un tempo era normale: se la mamma “non aveva latte”, non aveva tempo o non stava bene fisicamente (oppure, nel caso nelle nobili, era ricca ed era normale lasciare che fosse qualcun altro ad allattare; ma questa è un’altra storia), il suo neonato passava al seno della balia, una figura normalissima nella vecchia società. E cioè quella donna che, dopo aver partorito e durante l’allattamento del proprio bambino, decide di attaccarne al suo seno anche un altro, condividendo così il latte.
Era normale, naturalmente, perché il latte in polvere non c’era, o se c’era era molto costoso. E piuttosto del latte vaccino era molto meglio dare al piccolo quello di un’altra neomamma. E oggi, voi sareste disposte ad allattare il figlio di un’altra donna? O a lasciare che il vostro bambino si attacchi al seno di qualcun altra?
La questione è sorta qualche mese fa quando Rebecca Wanosik, una semplicissima e normalissima mamma, ha postato su Facebook l’immagine di lei mentre allattava il suo bambino e quello di un’amica. Udite udite, Facebook le ha chiuso il profilo. Sorvoliamo naturalmente il fatto - orripilante - del social network che consideri l’allattamento un gesto osceno da dover oscurare, ma vediamo meglio la questione dell’”allattare il figlio di un’altra”.
La storia di Rebecca ci può aiutare, perché è una situazione in cui tutte ci potremmo trovare. Una sera era tranquilla a casa quando un’amica le chiese un grosso favore: una ragazza che conosceva sarebbe dovuta andare in ospedale per un’operazione e quindi la sua bambina non avrebbe potuto per qualche giorno succhiare il suo latte. Purtroppo, però, la piccola non prendeva nemmeno il biberon, rendendo ogni sforzo inutile. E quindi: “Rebecca, mi faresti il grande favore di allattare questa bambina?”. La figlia di una sconosciuta, insomma.
Rebecca disse sì. E da qui, poi, lo scatto e il ban dal social network. Ciò che Rebecca racconta, tuttavia, è una storia bella, semplice e tranquilla, di altruismo ed empatia. “Quando la bimba è arrivata a casa mia lo vedevi chiaramente che era affamata ed esausta. Così ho fatto ciò che spero faccia qualunque persona se il mio bambino fosse in difficoltà. Ho nutrito il figlio di una sconosciuta. Ma sono sorpresa dal gran numero di persone che pensano che questo sia un gesto strano, innaturale. Sono tette, sono fatte per nutrire i bambini. E in più, se qualcuno l’avesse dimenticato, sono mie, quindi sono praticamente certa di dover essere io a decidere cosa accade loro”. Un post breve e semplice, che dice tutto.
Ma come la pensa la gente, davvero? Utile a riguardo è un esperimento condotto dal Daily Mail: il giornale ha mandato in giro per tre città inglesi un’attrice, che ha chiesto a 8 mamme incontrate per caso la cortesia di allattare il suo bambino, dal momento che lei era in difficoltà.
Su 8 mamme addirittura 5 si sono offerte di aiutare. E le altre hanno detto che potevano provare a portare alla mamma in difficoltà delle bottigliette di latte materno congelato che avevano a casa.
Probabilmente, quindi, più che le mamme sono le persone in generale a trovare la cosa strana. Ovviamente ogni mamma la pensa e la sente alla sua maniera, e ognuna ha il diritto di trovarsi a suo agio o a disagio. Non c’è una regola e non c’è qualcosa di “giusto”.
Tuttavia, perché puntare il dito quando una mamma semplicemente sta aiutando un’altra donna in difficoltà, ma soprattutto un neonato indifeso che altrimenti soffrirebbe? Forse davvero bisognerebbe rimettere le cose in prospettiva, tornando a quando l’aiuto reciproco, anche quando riguardava l’allattamento, era assolutamente la normalità.
Detta così sembra dura o impossibile. Chi si immaginerebbe mai di umiliare il proprio bambino? Il problema è che purtroppo lo facciamo anche senza accorgerci. A volte pensiamo che frasi banali come “smettila di piangere”, “finiscila di comportarti come un bambino” o “hai finito la tua scenetta?” siano innocue. Ma non lo sono. E sui bambini hanno effetti davvero devastanti.
Per capire quanto questi atteggiamenti siano pericolosi basta partire dall’inizio, e cioè capendo che l’autostima e la visione di sé sono fondamentali per un bambino, perché sono l’immagine che hanno di se stessi e che si porteranno dietro per tutta la vita. Nei primi anni dell’infanzia questa immagine viene pian piano costruita con tutto ciò che si ha a disposizione, capendo le proprie capacità, i propri limiti e i propri gusti, ma anche immagazzinando ciò che la gente attorno a noi (e cioè la famiglia) dice sul proprio conto.
Detto questo è facile quindi capire che se le frasi che un bambino si sente dire sono “smettila di fare il bambino”, “sei proprio stupido”, “sei stato cattivo” e compagnia bella, beh, questo bambino immagazzinerà un’immagine di sé come una persona “infantile”, “stupida” e “cattiva”.
La conseguenza purtroppo è diretta: essendo l’immagine che abbiamo di noi stessi ciò che pensiamo di essere, un bambino al quale viene detto (seppure in situazioni educative nelle quali i genitori cercano di modellare il comportamento) di essere cattivo, allora si comporterà male, perché quella è la “sua natura”. Un bambino definito “stupido” non si sentirà mai all’altezza di nulla, sentendo sulle spalle sempre il doppio del peso e della fatica. E così via.
E tutto questo naturalmente è come un circolo vizioso, poiché più il genitore chiede di “non essere cattivo” più il bambino lo sarà, perché in questa banale frase che sente c’è implicito l’essere cattivo. E quindi, si chiede: “allora come devo essere? Non devo essere me stesso? Ma se sono cattivo perché devo sforzarmi nel non esserlo?”.
La soluzione per evitare tutto questo è una sola, ed è semplice: evitare come la peste tutte quelle frasi che potrebbero causare vergogna ed umiliazione. A tutto c’è un’alternativa, non preoccupatevi.
E in questo caso l’alternativa è davvero più piacevole, anche per i genitori: spesso si pensa che una frase piazzata nel momento giusto, chiedendo di non essere più “stupidi”, “cattivi” o “infantili” sia un monito definitivo che spingerà i bambini ad imparare dai loro errori. Ma non è così, poiché piuttosto che focalizzarsi sull’errore ci si focalizza sulla persona (anche a livello verbale: è questo che passa). Per questo le conseguenze saranno a lungo termine, e per questo tale metodo educativo è molto più faticoso (in poche parole, ci saranno sempre problemi con il bambino, che tenderà a comportarsi al contrario di come i genitori vogliono). Al contrario, utilizzare empatia, comprensione, insegnamento e pazienza è molto più sano, più comodo e definitivo, poiché piano piano il bambino capisce davvero come comportarsi, senza la paura di essere una persona sgradevole.
Come fare quindi nella pratica? Prima di tutto, abbandonate quelle frasi che feriscono nel profondo (e le sculacciate!). Dopodiché, provate a trovare delle alternative anche alle “punizioni” e ai sistemi educativi troppo forti.
Ad esempio, invece di mandare i bambini in un angolo a pensare a ciò che di male hanno fatto, sedetevi insieme, faccia a faccia, e parlate della situazione, spronando il bambino a capire il misfatto e a trovare una soluzione.
Se questo misfatto coinvolge altre persone, alle quali il bambino può avere causato dolore, provate con il gioco di ruolo, e recitate insieme al bambino la situazione, facendogli fare la parte della vittima. Un piccolo trucco per insegnare l’empatia!
Quando poi perdete la pazienza e vi sentite di dover sgridare il bambino in maniera feroce, fate un bel respiro, e pensate subito che quell’occasione può rivelarsi strumento di insegnamento. Se vi mettete nell’atteggiamento di insegnare una lezione vi calmerete, poiché dovrete pensare prima voi stessi all’analisi dei fatti. Insieme al bambino capirete quindi ciò che è meglio fare, e lui imparerà che esistono conseguenze alle azioni.
E sempre per insegnare le conseguenze delle azioni, non esitate ad affidarvi ai libri. Ci sono moltissimi libri per bambini che spiegano proprio questo: quando si agisce ci sono sempre conseguenze, positive o negative, e dobbiamo sempre metterle in conto. Ovviamente non aspettate il momento dell’arrabbiatura o quando il bambino ne ha combinata una delle sue: iniziate fin da subito con le letture, e il bambino ne beneficerà davvero moltissimo, capendo che una persona può fare qualcosa di cattivo, ma non significa che essa è cattiva di natura!
A noi le lasagne piacciono tantissimo. Ma proprio tanto tanto! Tuttavia cerchiamo sempre di limitare la carne, quindi a volte è meglio avere un'alternativa più sana ma altrettanto gustosa. Quando facciamo quindi il nostro ragù di seitan cerchiamo di farne in abbondanza, in modo da averne per realizzare delle ottime lasagne vegetariane!
Una persona adulta lavora al massimo 8 ore e, in generale, chi inizia alle 8 alle 17 (massimo alle 18) termina il suo orario lavorativo. Bene, in molte scuole un bambino di 8 anni alle 17 inizia a fare un'ora di compiti.
E a me questa cosa fa arrabbiare all'inverosimile. Non posso farci nulla, la trovo fuori da ogni concezione, logica e comprensione. Non sono un caso statistico ma ho 33 anni, ho affrontato e superato il Liceo Classico Cavour di Torino (conosciuto come uno dei più temibili), ho due lauree con 110 e lode. Eppure non ho quasi mai fatto un compito alle elementari; e alle medie forse qualche oretta allo studio (circa 4 alla settimana) l'ho dedicata. Ora ho un lavoro super gratificante, sono blogger e ho una social media agency con la mia socia Cecilia. Sgobbo come una pazza come tutte noi mamme dividendomi tra casa, figli e famiglia, arrancando con fatica. Tre giorni su cinque penso di non farcela, eppure ci riesco quasi sempre. E non mollo, mai, come tutte voi che state leggendo. Credo di avere ampiamente interiorizzato il senso del dovere, sia nel lavoro che in famiglia e cerco, nei miei limiti, di dare il massimo.
Ma vi assicuro che alle elementari uscivo da scuola nel mio paesello e giocavo con la sabbia, con le amiche, con la palla e nei boschi. Quindi? I compiti alle elementari e alle medie hanno davvero un ruolo così imprescindibile per la preparazione a livello didattico e per instaurare il senso del dovere?
Mi rendo conto che la preoccupazione delle scuole elementari sia quella di preparare i bambini a delle scuole medie che pretendono 4 ore al giorno di studio ma, se permettete, la cosa mi tocca relativamente, perché mio figlio dopo 8 ore a scuola deve uscire e vivere: merenda alle 16 e poi via a giocare al parco o con i suoi giochi (i due giorni in cui non abbiamo attività sportiva o musicale). E i giorni in cui ha queste attività, se permettete, torniamo alle 18.15 a casa e di certo non lo metto seduto a fare i compiti, inveendo contro di lui perché, giustamente non ha una mazza di voglia di mettersi lì a farli mentre io cucino e giro compulsivamente in casa tra lavatrici e pseudo pulizie.
E il week end? Forse un'oretta e mezza nel week end, a partire dagli otto anni, può avere senso, perché davvero inizia a far comprendere al bambino cosa significhi studiare a casa e stare seduti. Ma basta, oltre a quello per me è inconcepibile.
Ma vi sembra normale che un bambino a 9 anni oltre alle sue 8 ore di scuola si debba mettere almeno 40 minuti al giorno a fare compiti?
I sostenitori del compito a casa ritengono che questi insegnino il senso del dovere: ma il senso del dovere, e quindi il "faccio qualcosa anche se non ho voglia”, deve essere veicolato tutto il giorno tutti i giorni. I miei figli sparecchiano, apparecchiano, mettono in ordine i loro giochi, fanno le pulizie con me da quando hanno 3 anni, fanno giardinaggio, si prendono cura del cane, mi aiutano con la spesa e in qualunque momento mamme e papà abbiano bisogno loro sanno di dover dare una mano. Questo non è senso del dovere? E vi assicuro che quasi nessuna di queste attività li entusiasma (ad eccezione del giardinaggio); vi assicuro che non hanno voglia di apparecchiare perché vorrebbero giocare fino all'ultimo secondo prima di cena. Eppure lo fanno. Ma sopratutto non hanno nessuna voglia di andare a scuola: eppure ci vanno. E questo non è senso del dovere?
E non raccontiamoci che i bambini a 8 anni devono fare i compiti in autonomia: 3 bambini su 22 in classe di mio figlio fanno i compiti da soli. Il problema è che nessuna mamma lo dice all'insegnate.
Perché le mamme non parlano, perché “poi l'insegnate cosa dice? Ho paura di mettere in cattiva luce mio figlio". Dunque, se davvero le maestre della vostra scuola fanno ciò, vuol dire che siete in una pessima struttura e che sarebbe proprio il caso di valutare un bel cambiamento, se possibile: perché è impensabile che una maestra se la prenda con un bambino perché sua madre ha osato esprimere disappunto, è abuso di potere e anche davvero poco cuore. Quindi voglio sorvolare su questo.
Tornando all'autonomia nel fare i compiti, credo che sia preoccupante pensare che un bambino di 7 anni di sua spontanea volontà dica "wow, smetto di giocare con i miei Playmobil che ho sognato tutto il giorno a scuola perché devo fare i compiti". Se ci arriva a 12 anni, magari sotto minaccia e senza urlare, ne sarò felice, ma per ora siamo ben lontani.
E ripeto, il problema è che nessuno lo manifesta apertamente perché la moda del momento è avere tutti figli geni, responsabili e performanti. Perché dopo l’I-phone è davvero bello avere il figlio con tutti 10 a scuola. Fa stare bene, rassicura sul suo futuro quasi quanto una Tachipirina data a 37,5 il venerdì sera prima del week end.
Così oltre ai bambini appiccicati a un tavolo tutti i pomeriggi vediamo anche le loro mamme sedute accanto, le mamme fortunate, quelle che non lavorano o che hanno un part time che consente loro di far fare i compiti ai bambini: le altre, quelle che lavorano full time e che hanno, magari, come supporto pomeridiano i nonni, ai quali ovviamente non puoi chiedere di far fare i compiti a tuo figlio, si attaccano al tram: si inizia alle 18 a fare i compiti, si inizia alle 19 a interrogare il figlio. A volte anche dopo cena, perché hai avuto la malaugurata idea di fare la spesa dopo lavoro.
Ragazzi, qui qualcosa non torna. E non si tratta di essere mollaccioni e di consentire tutto ai propri figli. Ritengo che manchi un po' di buon senso. Perché a 15 anni un ragazzo può stare fino alle 18 a studiare, e se c'è la necessità di ripassare dopo cena per una verifica, anche fino a mezzanotte, lo vedo assolutamente utile e necessario. Un bambino di 8 (ma anche di 12) no. C'è un tempo per tutto.
E per le elementari e le medie non è tempo. Se non per madri che devono dimostrare a se stesse che hanno un figlio bravissimo a scuola. Che hanno bisogno disperatamente del 10.
Posso dirvi poi che tanti dei miei compagni geni da 10 durante il mio percorso scolastico non hanno terminato l'università? Posso dirvi invece che il mio gruppo di amici da 6-7 e qualche volta 8 è riuscito a fare dei lavori gratificanti? Credo che la differenza, il punto focale, sia insegnare ai propri figli a porsi un obiettivo e perseverare in questo, con un'ottica di lungo respiro: all'interno del percorso ci saranno momenti difficili, situazioni in cui non si avrà assolutamente voglia, eppure si va avanti, con lo sguardo fisso verso l'obiettivo e stringendo i denti. Questo per me è senso del dovere. E questo, fidatevi, non lo insegnano i compiti.
Non sono un campione statistico, però. Questo è vero. Allora ecco qualche sana statistica che emerge da sistemi scolastici comparati tra loro.
La ricerca è stata condotta dalla Ozicare Life Insurance, una compagnia di assicurazioni che ha preso i dati ufficiali dell’Ocse mettendoli nero su bianco, in schemi che aiutano benissimo a comprendere la situazione. Il tema è proprio il tempo che i ragazzi di tutto il mondo spendono facendo i compiti, comparato poi con i successi scolastici effettivi.
Già dalla prima tabella esce fuori la drammaticità: se ai primi posti troviamo la Finlandia e la Corea del Sud (i cui ragazzi spendono meno di 3 ore alla settimana sui compiti - quindi mezz’oretta al giorno - e che, nella classifica globale sull’efficienza dell’istruzione, si trovano rispettivamente al quinto e al primo posto mondiale), l’Italia è agli ultimi posti, prima solo della Russia: i nostri ragazzi mediamente passano 8.7 ore alla settimana facendo i compiti, eppure, nella classifica Pearson sul Best Education System, siamo al 25° posto. Dietro anche alla Russia, che sta al tredicesimo.
(Immagine Ozicare)
Ciò che fa pensare è proprio come i paesi che dedicano meno tempo allo studio a casa (privilegiando invece lo studio in classe e poi, fuori, il gioco, l’iniziativa e la riflessione, lo spazio domestico e quello all’aperto) balzano in cima alla classifica dei migliori sistemi scolastici, mentre quelli che danno più compiti a casa non sono poi così brillanti (anzi). In poche parole: più compiti a casa non è sinonimo di buona istruzione.
Entriamo allora nel dettaglio di questa comparazione, e cioè: vediamo come sono davvero le scuole in Finlandia e in Corea del Sud. E vediamo poi l’Italia.
In Finlandia, come dicevamo, i bambini passano meno di tre ore alla settimana (2.8) sui compiti a casa. A scuola ci vanno per cinque giorni alla settimana, a partire dai 7 anni, e le ore in classe con l’insegnante sono solo 4. Oltre a questo, ciò che fa più strabuzzare gli occhi (perché ne siamo invidiosi!) è che fino ai 16 anni i bambini non vengono esaminati e giudicati con voti: la Finlandia punta infatti all’uguaglianza totale, partendo dai voti e continuando con un sistema scolastico egualitario (non vi sono tasse per entrare a scuola e le mense sono gratuite). E il successo è garantito anche da insegnanti estremamente competenti, tutti laureati e con uno stipendio molto più alto della media di tutti gli altri paesi del mondo.
(immagine Ozicare)
La Corea del Sud, al primo posto nella classifica mondiale e al secondo in quella del tempo passato sui compiti (2.9 ore alla settimana), ha un sistema scolastico molto rigido e competitivo (al contrario della Finlandia), ma questo non significa ore in più a casa, perché i coreani puntano molto sul lavoro in classe. I ragazzi vanno a scuola per 5 o 6 giorni alla settimana, e in classe lavorano moltissimo, anche esercitandosi nelle varie materie, per prepararsi agli esami di ingresso alla scuola superiore e ai college. L’80% dei ragazzi, poi, entra anche all’Università. Tutto questo peso sulle spalle e la competizione, tuttavia, spingono la maggior parte dei ragazzi a prendere anche lezioni private, un’usanza che è di fatto la norma.
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E in Italia? Come dicevamo, i bambini passano circa 8.7 ore alla settimana sui libri (fuori da scuola). Vanno a scuola per 6 giorni alla settimana (5, se fanno l’orario continuato tutti i giorni), hanno 3 maestre alle elementari e molti più insegnanti alle medie e al liceo. Va be’, il nostro sistema scolastico lo conosciamo, non serve dire altro.
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Insomma, certo che più studio significa più rendimento, ma gli esperti mettono in guardia: se si superano i 60 minuti giornalieri il risultato è l’opposto, e quindi si rischia di non avere alcun beneficio. La migliore media? 4 ore di compiti alla settimana. Non di meno, ma nemmeno di più. E siamo sicuri che i nostri bambini non le superino? Io non credo proprio...
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